Ci penso spesso, negli ultimi tempi.

A quanto si giudichi. Ovunque. Con leggerezza, con superficialità, con velocità.

Un giudizio che spesso si traveste da ironia, da libertà di espressione, da “sincerità”, ma che, in

fondo, è solo una forma di esclusione.

Si giudica tutto: le parole, i silenzi, i corpi, i sentimenti, le scelte, si giudica chi si espone

troppo,chi non si espone abbastanza, chi mostra, chi nasconde, chi vive, chi sopravvive.

E intanto, proclamiamo accoglienza.

Parliamo di inclusione, di rispetto dell’altro, di empatia.

Ci diciamo “aperti”, “sensibili”, “attenti alle diversità”, eppure, basta poco pochissimo, per farci

passare da “accoglienti” a “giudicanti”.

Basta che l’altro non si comporti come vorremmo, che non parli come ci aspettiamo, che sia

portatore di una fragilità che non sappiamo decifrare, e allora lo analizziamo, lo etichettiamo, lo

teniamo a distanza.

È una contraddizione che mi lacera, a volte, perché sento che questo giudizio spesso sottile,

implicito, pervasivo è la radice di molte solitudini.

E i social, in tutto questo, sono come uno specchio deformante, una vetrina dove si espone ciò

che si vuole mostrare, e dove si riceve in cambio una pioggia di opinioni, commenti, likes o

indifferenza.

Luoghi dove si può diventare “contenuto”, ma non sempre “persona”.

Nel mio “essere” counselor, (che non è solo una professione ma una missione) ogni giorno,

incontro persone che portano dentro ferite invisibili lasciate da sguardi giudicanti, da parole mal

dette, da attenzioni mai ricevute.

E io, ogni giorno, scelgo in modo intenzionale di non giudicare.Non è un atto di bontà, è una forma di resistenza umana.

È dire: “Tu sei. E questo basta.”

Dare dignità alla voce dell’altro

Questa è una delle esperienze più profonde che vivo nel mio cammino: ascoltare una persona

che, lentamente, trova la sua voce.

Una voce che a volte era stata zittita da anni di invisibilità, altre volte era diventata muta per

difesa, o per vergogna, oppure era diventata una voce adattata, educata, filtrata, costruita per

piacere, per non disturbare, per rientrare in qualche forma.

E poi, lì, nello spazio dell’ascolto, qualcosa accade.

La voce torna.

Non quella perfetta, non quella che spiega bene, non quella che convince, ma quella autentica.

La voce vera, che balbetta, che esita, che si emoziona, che ha paura, ma che finalmente si sente

libera di uscire.

E quando questo accade, io mi scaldo ogni volta, perché so che sto assistendo a qualcosa di

sacro.

Dare dignità alla voce dell’altro non è solo “sentirlo parlare”, è restituirgli il diritto di esistere, è

creare uno spazio dove quella voce possa posarsi senza temere di essere corretta, analizzata,

minimizzata, è dire, con tutta la mia presenza: “Non devi giustificarti. Non devi convincermi. La

tua voce ha un posto qui.”

In un mondo che premia chi sa parlare forte, chi sa argomentare, chi sa conquistare la scena, io

scelgo, ogni giorno, di stare accanto a chi non sa più trovare le parole, a chi ha imparato a tacere

per sopravvivere, a chi pensa di non valere abbastanza per essere ascoltato.

Ed è lì che accade il miracolo: la persona si riappropria della propria voce, e con essa della

propria storia, della propria dignità, del proprio senso, ed io, da counselor, non faccio nulla di

straordinario.

Se non esserci, restare, non fuggire davanti al dolore, al buio, alla fatica, essere una presenza che

non pretende, ma accoglie.

E tutto questo, per me, è un atto profondamente politico.

Il counselor come figura politica della polis

Sì, politica.

Ma non nel senso stretto e impoverito che spesso diamo alla parola, non una politica fatta di ruoli

o di schieramenti, ma una politica dell’umano, della relazione, della comunità.

Il counselor, con la sua sola presenza, abita la polis, è una figura civica, non istituzionale, ma

sociale.

È colui o colei che ricuce, che ascolta, che tiene insieme frammenti, è presenza che genera

possibilità, che offre uno spazio altro, uno sguardo altro, un tempo altro.

Il counselor è politico perché sta nei luoghi dove la società spesso non guarda: nei silenzi degli

anziani, nei corpi stanchi delle madri sole, nei pensieri frammentati degli adolescenti, nelle paure

mai dette di chi si sente sbagliato.

Il counselor non promette risposte, ma cammina insieme, non porta soluzioni, ma costruisce

condizioni di fiducia e presenza, non crea dipendenza, ma genera libertà interiore.

È una figura che non sale sul podio, ma si siede accanto, che non alza la voce, ma offre ascolto,

che non giudica, ma si lascia attraversare, e forse, in un tempo come il nostro, questo è il più alto

gesto politico possibile, stare davvero con l’altro, senza volerlo cambiare, salvare o risolvere.

Solo esserci, in profondità, in verità, con umiltà.

E mentre il mondo corre e grida, io continuo a credere nel valore immenso di un ascolto senza

giudizio.

Nel silenzio che cura.

Nella parola che torna al centro.

Nel tempo condiviso che restituisce senso.

Nella voce che finalmente trova casa.

Patrizia Truglia

Professional Counselor

Trainer

Referente S.I.Co Umbria-Abruzzo-Molise